La cultura sta all’uomo come l’acqua ai pesci
“Com’è l’acqua?” Chiese il pesce anziano incontrando due pesci giovani che gli venivano incontro nuotando. E i pesci risposero “Cosa diavolo è l’acqua?”
Questo aneddoto è stato raccontato dallo scrittore e saggista americano David Foster Wallace in uno dei più famosi commencement speech, This is water.
Il significato di questo aneddoto è che le realtà più ovvie e importanti sono spesso quelle più difficili da vedere e di cui è difficile parlare, ad esempio la cultura degli uomini. Come i pesci sono completamente circondati dall’acqua e non riescono a riconoscere che cos’è fino a quando non ne saltano fuori, così anche noi uomini siamo immersi nella nostra cultura e non ne abbiamo consapevolezza e non la riconosciamo fino a che non usciamo da essa, incontrando (o scontrandoci) con una cultura diversa.
Ciò che sappiamo, i nostri punti di riferimento, il sistema di valori, il non detto che circonda la nostra vita quotidiana è quello che consideriamo essere normale, vale a dire il sostrato comune che ci permette, ad esempio, di parlare facendo omissioni e di capire o cogliere quelle omissioni senza fare caso a tutto l’insieme di conoscenze sottese e condivise. Tutto ciò che consideriamo normale ci deriva dall’educazione che abbiamo avuto, dai nostri genitori, dalla scuola, dalle esperienze che abbiamo fatto nella nostra vita sociale. Così normale da essere ovvio, banale e inutile da spiegare e che quindi diventa non percepito, dimenticato, non conosciuto.
Questa normalità di pensiero, valori e comportamenti è quello che definisce la cultura che ci appartiene. Non ci rendiamo conto di come siamo fino a che non entriamo in contatto con persone che hanno un sistema di pensiero, valori e comportamenti diverso dal nostro. Persone per le quali normale significa qualcosa di diverso da come lo intendiamo noi, a volte anche opposto.
A volte questi incontri-scontri di normalità diverse fanno emergere l’arroganza delle persone che sono guidate e confidano nella certezza del sapere: una certezza cieca che spesso si manifesta come veemenza, insistenza o anche disapprovazione a seconda delle situazioni. Sono sintomi di una chiusura mentale che è una condizione dell’essere umano, un imprigionamento in meccanismi di sapere vacui, in cui il prigioniero non si rende nemmeno conto di essere inserito.
Un imprigionamento che è una condizione di default del nostro io, installata nelle nostre menti fin dalla nascita e che si manifesta nel pensare di essere al centro dell’universo, nel rapportare i sistemi di riferimento alla nostra posizione e nel giudicare ciò che è giusto o sbagliato in base alla nostra esperienza del mondo. Vedere e interpretare tutto attraverso le lenti del nostro io dando per scontato che tutti vedano le cose come le vediamo noi. La riflessione su questo concetto non è nuova e si trovava già negli insegnamenti del Talmud, il testo sacro dell’ebraismo: “Noi non vediamo le cose come sono. Vediamo le cose per come siamo noi”.
Uscire da questa condizione di modalità automatica richiede lo sforzo del pensiero, lo sforzo di essere attenti e ricettivi, richiede di scegliere di prestare attenzione a ciò che si trova di fronte a noi e dentro di noi. Imparare a pensare per avere controllo su come e cosa pensiamo e come costruiamo significato dall’esperienza.
Osservare le situazioni significa vedere altre opzioni, significa trovare alternative, possibili spiegazioni, guardare da una prospettiva diversa e quindi decidere come interpretare la realtà, come comportarsi e cosa dire e fare.
Acquisire questa consapevolezza critica è un lavoro incredibilmente difficile perché richiede di ricordare perpetuamente a noi stessi di mettere in dubbio ciò che per noi è normale, l’acqua in cui siamo immersi, ovvero la nostra cultura.
D’altro lato credo che vedere opzioni e alternative sia una facoltà commisurata all’intelletto umano, ma che deve essere costantemente allenata, mettendo sempre in dubbio le certezze acquisite, osservando la realtà con occhio vigile e attento nella ricerca continua di migliorare il nostro sapere e quindi il nostro essere.
Le sfide che siamo chiamati ad affrontare in questi anni richiedono un cambio di paradigma, per agire come collettività umana al di là della nostra visione locale e del nostro normale.
Lingue, traduzioni, cultura sono gli elementi che ci permettono di rompere la superficie dell’acqua, agitare e mettere in discussione le nostre credenze per rinnovare di ossigeno i nostri pensieri.